(di Anna Venturini) L’hamburger di soia, il panino con sgombro e mango, il tofu col pesto di rucola e mandorle. Scrivi qualche ricetta diversa, mi dico, non ci sono mica solo gli onnivori. Ci sono i carnivori e i vegetariani. Ci sono i vegani, i fruttariani, i crudisti. Anche i respiriani, secondo il comico Crozza, ma per quelli non servono ricette, solo aria buona.
Poi ci sono gli intolleranti, quelli che non sopportano il latte, quelli che non mangiano il frumento. Quelli allergici: ai peperoni o alle fragole, o al basilico, però solo se ci mangiano insieme una mela. Quelli a cui la cipolla rinviene e l’aglio dà fastidio per l’alito. Ci sono i celiaci, che consumano la pasta deglutinata ma la devi cuocere in una pentola a parte. E poi ci sono quelli allergici al nichel, per i quali che devi cucinare nella ceramica e usare i mestoli di legno.
Oggi se hai un ristorante, o ti curi i nervi con gli ansiolitici, o ti adegui. Oppure ti fai delle domande e tenti la via della consapevolezza. Visto che tutti questi modi di relazionarsi con il cibo hanno radici importanti, alcune etiche, alcune mediche, non viene naturale domandarsi come mai il nostro secolo sia quello dei grandi cambiamenti anche nel rapporto dell’uomo con l’alimentazione? I nostri nonni non erano allergici a nulla, a parte qualche rarissimo caso.
Mangiavano la carne ogni tanto, verdura e frutta non inquinata da pesticidi, uova senza veleni e bevevano acqua pulita. Oggi pare non esista nessuna parte del pianeta, neanche l’angolo più sperduto della foresta amazzonica o la cima dell’Everest, esente da fattori inquinanti. Negli ultimi trent’anni, con l’introduzione di selezioni colturali sempre più specifiche e semi Ogm, l’uso di pesticidi nel mondo è aumentato del 25%, e di conseguenza si è registrato un’impennata spaventosa nel numero dei casi di malattie oramai collegate con certezza all’uso sconsiderato di prodotti chimici in agricoltura e zootecnia: le malattie degenerative del sistema immunitario.
Quindi partiamo dal presupposto che ogni ricetta deve avere come punto di partenza una materia prima il più possibile “sana”, “pulita” e “giusta”, per parafrasare un vecchio libro di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Si tratta di cercare sul territorio, e il più possibile vicino a noi, prodotti non trattati, lavorati con responsabilità e portati sulla nostra tavola in maniera etica, cioè con attenzione al prodotto, a chi lo lavora e a chi lo consuma.
Credo che una sempre maggiore consapevolezza sui comportamenti da tenere nei confronti dell’alimentazione implichi una conoscenza complessiva di una serie di questioni che riguardano non solo il cibo, ma l’ambiente e il nostro rapporto con la terra. Avere il frigo pieno di involucri di plastica, cibi surgelati, scatolette di alimenti conservati, pane e biscotti che scadono tra un anno non ci salverà, neanche se ci nutriamo di soia e tofu.
In questo senso le scelte vegetariane e vegane si pongono in qualche modo come alternativa ai comportamenti inconsapevoli di chi produce e di chi consuma, ma, in generale, ogni persona procede in un personale percorso di conoscenza e consapevolezza che va sempre e comunque rispettato. Io sono vegetariana e apprezzo gli sforzi di alcuni supermercati o delle associazioni che si occupano di alimentazione e cultura che diffondono attraverso riviste cartacee e web comportamenti etici nei confronti degli animali. Il primo passo è il rispetto: degli animali e dell’ambiente. Che si compie attraverso cibi di buona qualità, del territorio, biologici, di origine controllata e protetta. Tra questi, le materie prime che sono “presídi”, garantiti e curati perché rispettano parametri di eccellenza nella produzione. Scoprire i meccanismi dei processi di produzione, riconoscere i sapori degli alimenti, pretendere la qualità: ognuno di noi ha il diritto e il dovere di informarsi e di essere parte del cambiamento.
E con buoni prodotti avremo buona cucina, buona salute e un mondo un pochino più buono, più pulito e più giusto.
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